La storica ventosa metallica, inventata da un medico svedese nel 1947 è stata pian piano quasi totalmente soppiantata da un modello australiano.
Si chiama “Kiwi omni cup” e il nome sottolinea la sua importante prerogativa: il fatto di adattarsi perfettamente alla testa di ogni bebè.
Il ricorso alla ventosa ostetrica, seppur piuttosto raro, riguarda il 5-10% delle nascite per via vaginale: l’avvento di questo nuovo modello, approdato negli ospedali italiani una quindicina di anni fa, ha reso tale intervento più sicuro e meno traumatico sia per la mamma, sia per il bambino.
L’applicazione della ventosa che, negli ultimi anni, ha sostituito progressivamente il forcipe, è decisiva in tutte le situazioni in cui il parto non può progredire e concludersi senza l’intervento del medico.
La ventosa tradizionale, è costituita da una coppetta metallica, del diametro di circa 5-7 centimetri, profonda un centimetro, che viene inserita in vagina e posizionata sulla testolina del bebè per permetterne o accelerarne il disimpegno (ovvero l’uscita) dal canale del parto. Al centro della coppetta c’è un foro a cui viene applicato un tubo di gomma, collegato a una pompa aspiratrice automatica che, molto gradualmente, crea il ‘vuoto’, indispensabile perché la ventosa aderisca completamente al cuoio capelluto del neonato.
Questa operazione richiede un tempo che varia da 10 a 20 minuti: non è infatti possibile esercitare una trazione sulla ventosa finché questa non è saldamente adesa alla testolina del bebè. I tempi “lunghi” che intercorrono tra l’applicazione della ventosa e il suo effettivo utilizzo rendono questo strumento inadeguato in tutte le situazioni in cui la nascita deve avvenire rapidamente (ad esempio, perché c’è sofferenza fetale).
Un limite che con la ventosa Kiwi è stato superato. La ventosa australiana, differisce dal modello tradizionale per un particolare semplice ma sostanziale: la coppetta che viene applicata alla testa del bimbo non è in metallo, ma in plastica.
Per questo la ventosa Kiwi si adatta meglio e più rapidamente alla testa del bambino, permettendo un utilizzo praticamente immediato dello strumento. Un apposito ‘grilletto’ aziona il meccanismo che produce il vuoto non appena la coppetta è stata inserita nella vagina e posizionata sulla testa del bebè. La ventosa Kiwi è leggera e maneggevole, poiché non necessita di pompe per l’aspirazione. Inoltre, aderisce perfettamente e si può utilizzare subito per esercitare una lieve trazione verso il basso – in occasione delle contrazioni e quindi delle spinte della mamma – favorendo in talmodo la rotazione della testa e l’uscita dal canale del parto.
ll sostanziale vantaggio garantito dall’applicazione della ventosa Kiwi consiste nella velocizzazione dei tempi di intervento.
Rispetto alla ventosa tradizionale, permette di intervenire in modo estremamente rapido, ed è quindi utilizzabile anche nelle situazioni di sofferenza fetale, in cui la nascita deve avvenire nell’arco di pochi minuti. Applicando la coppetta metallica sui tessuti molli della testa del bebè, nella maggior parte dei casi si crea un ematoma (detto ‘tumore da parto’), più o meno accentuato, destinato a risolversi spontaneamente in pochi giorni. Con la Kiwi questo non si verifica: è la coppetta ad adeguarsi alla testa e non viceversa (come accade invece con la ventosa tradizionale).
Inoltre, l’applicazione è meno ‘traumatica’ anche per la mamma, in quanto la coppetta in plastica non ha bordi duri e rigidi, come quella metallica, e, per l’inserimento in vagina, non è indispensabile procedere con l’episiotomia (un taglietto eseguito dalla vagina verso l’ano).
Spesso l’episiotomia viene comunque praticata, ma per velocizzare il parto, non per permettere l’uti1izzo dello strumento. Va anche ricordato, infine, che l’applicazione della ventosa Kiwi non è dolorosa e, se viene accompagnata dall’episiotomia, è preceduta da un’analgesia locale
IN QUALI CASI E’ INDICATA
Questo intervento viene eseguito per aiutare mamma e bambino nell’ultima fase del periodo espulsivo. È quindi indicato in tutti i casi in cui la donna non riesce più a collaborare, perché particolarmente stanca e provata, in seguito a un travaglio lungo e faticoso, e non ha le forze per spingere attivamente.
La ventosa può essere risolutiva anche nel caso in cui, durante il periodo espulsivo, le contrazioni diminuiscano di intensità o frequenza, nonostante il ricorso a farmaci (quali l’ossitocina) destinati a stimolare l’attività contrattile.
Si ricorre alla ventosa anche quando, in seguito a un’analgesia epidurale, la donna fatica a ‘sentire’ le spinte e non riesce a collaborare attivamente. Aiutando la mamma con leggere trazioni, mentre lei esercita le spinte, si evita di ricorrere a un cesareo.
A volte, il medico può utilizzare la ventosa se la mamma ha subito un pregresso cesareo e si ritiene opportuno accelerare l’ultima fase del parto oppure, questa può essere la soluzione nei casi di sofferenza fetale in cui si rende necessario un intervento immediato e non c’è il tempo per eseguire un cesareo.
Ci sono, infine, indicazioni non strettamente ostetriche per velocizzare la fase espulsiva e ‘aiutare’ la donna nelle spinte, ad esempio in caso di miopia severa — ossia quando l’oculista che ha in cura la futura mamma accerta il rischio che sforzo eccessivo possa causare un distacco della retina o se la mamma soffre di gravi problemi cardiocircolatori. In queste situazioni il ricorso alla ventosa permette di evitare il cesareo.